sabato 28 gennaio 2012

La rivoluzione Islandese: annullare il debito pubblico ed uscire dalla crisi.

Un Paese è riuscito ad uscire dalla crisi  economica, a evitare il fallimento e a far pagare le conseguenze ai  colpevoli e non ai cittadini: è l'Islanda. Questa è la storia di una  rivoluzione. Sta accadendo ora, in Europa: anche se ad accorgersene sono  pochissimi. Eppure di rivoluzione si tratta: governo costretto alle  dimissioni, banche nazionalizzate, banchieri arrestati, democrazia  diretta. Gli islandesi così hanno salvato il loro Paese dalla crisi  economica.

Inizia nel 2001 quando il governo islandese inizia a privatizzare il  settore bancario. Nel 2003 le tre banche principali iniziano a far  lievitare i debiti contratti con altri paesi: nel 2007 questi debiti  arrivano al 900% del PIL islandese.  A questo punto il governo decide di  rivolgersi al Fondo monetario internazionale che approva un prestito. I  soldi iniziano ad arrivare, specie da Inghilterra e Olanda, ma, ad un  certo punto, questi investitori stranieri reclamano la restituzione del  debito islandese. Il governo non ha le risorse così il Paese finisce in  bancarotta. Il governo fa quello che tutti i governi fanno in casi  simili: propone le tipiche Misure di austerità ed i Tagli alla Spesa. La  situazione diventa drammatica, la disoccupazione passa dall'1% al 9%  e  molti islandesi iniziano ad emigrare.  Gennaio 2009: per trovare i  soldi necessari, il governo studia un prelievo straordinario: ogni  cittadino islandese avrebbe dovuto pagare 100 euro al mese per 15 anni, a  un tasso di interesse del 5,5%  annuo.  Il tutto per pagare danni  creati da altri. È a quel punto che la rabbia popolare esplode.
A guidare la rivolta sono un cantante ed una donna lesbica. I  cittadini islandesi scendono in piazza, non per un giorno solo: per 14  settimane. Cingono d'assedio il Parlamento, chiedendo le dimissioni del  governo, incapace di gestire la crisi, e di sbattere la porta in faccia  agli organismi internazionali  svincolandosi dalla BCE (che ricordiamo è  un associazione di grosse banche PRIVATE).
Mentre, a Washington, l'America saluta l'entrata in carica del suo  primo presidente di colore, gli islandesi sono in piazza, si scontrano  anche con la polizia, il premier annuncia le dimissioni. Ma la gente non  se ne va, non ancora. Chiede elezioni immediate e l'1 febbraio  l'Islanda ha una nuova premier. Ma a un cambio di regime non corrisponde  necessariamente ad un miglioramento della situazione economica  generale, infatti il nuovo esecutivo vuole confermare il risanamento del  debito con Olanda e Gran Bretagna. I combattivi islandesi nel 2010  chiedono un referendum sulla volontà di pagare o meno il debito  pubblico. La pressione sull'Islanda è alle stelle: Olanda e Inghilterra  minacciano di isolarla se sceglierà di non ripagare i debiti. "Ci  dissero che se non avessimo accettato le condizioni della comunità  internazionale saremmo diventati la Cuba del Nord", ricorda Grimsson.  “Ma se le avessimo accettate saremmo diventati la Haiti del Nord". Al  referendum il 93% dei votanti decide di rischiare di diventare la Cuba  del Nord, schiacciante vittoria dei “No”. Gli islandesi non hanno alcuna  intenzione di accollarsi un debito enorme generato da una politica  finanziaria disastrosa condotta da chi detiene il potere finanziario del  Paese. Da questo momento in poi l'esecutivo, adotterà misure  draconiane, ma non verso i cittadini, quanto piuttosto verso coloro che  sono stati ritenuti colpevoli della crisi. Si decide di mettere sotto  inchiesta i banchieri e i top manager responsabili della crisi  finanziaria. Le tre più importanti banche del Paese vennero  nazionalizzate. Portati a giudizio ex-membri dell’esecutivo e banchieri  (per quelli in fuga emessi mandati di cattura internazionali). Il Fondo  Monetario congela immediatamente gli aiuti, “abbandona” il Paese,  ponendo fine agli aiuti condizionati. Può essere l'inizio della  rinascita. l'Islanda non accetta le ricette Proposte Dalle istituzioni  Internazionali e rifiuta gli assunti liberisti.
Da qui la scelta della democrazia diretta e di una nuova costituzione  che recepisca delle leggi in grado di tutelare in futuro da nuove  catastrofi speculative. A novembre 2011 – viene eletta un’assemblea  costituente, requisiti necessari per essere votati ed eletti sono solo  tre: la maggiore età, il sostegno e le firme di trenta cittadini e la  mancanza di affiliazione partitica. Inoltre si invita ogni cittadino a  contribuire alla stesura della nuova Costituzione islandese – progetto  chiamato Magna Carta - attraverso i social network Facebook e Twitter,  mentre su un canale Youtube creato ad hoc è possibile seguire i lavori  dell’assemblea. In attesa degli esiti del referendum e poi della  ratifica parlamentare, la bozza della Costituzione è già in rete. Si sta  sviluppando anche l’Icelandic Modern Media Initiative, una interessante  iniziativa che dovrebbe servire a creare una rete di sicurezza, anche  legale, perché il giornalismo d’inchiesta non debba scontrarsi e  soccombere all’ingerenza dei poteri forti della politica e della finanza  internazionali.

Il caso della rivoluzione islandese porta con sé delle lezioni  importanti: la coraggiosa scommessa di andare controcorrente e di non  adottare scelte imposte dall’esterno.
La grande stampa internazionale non ha dedicato alcuno spazio alla  vicenda, è più fruttuoso per le banche (che detenendo il potere  monetario, detengono anche il controllo dei politici e delle  informazioni) presentare come unica soluzione a condizioni economiche e  sociali disastrose (da loro stesse create tramite l'emissione selvaggi  di moneta debito e la conseguente inflazione), l'ulteriore sacrificio  della popolazione, come una vera e propria spremitura che gonfi ancor  più le proprie tasche, è la lotta armata, per scongiurare il pericolo  che un manipolo di cittadini consapevoli decidano di esercitare,  finalmente, i propri diritti: sovranità popolare e sovranità monetaria.
fonte: Valeria Blandizzi

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