Un Paese è riuscito ad uscire dalla crisi economica, a evitare il fallimento e a far pagare le conseguenze ai colpevoli e non ai cittadini: è l'Islanda. Questa è la storia di una rivoluzione. Sta accadendo ora, in Europa: anche se ad accorgersene sono pochissimi. Eppure di rivoluzione si tratta: governo costretto alle dimissioni, banche nazionalizzate, banchieri arrestati, democrazia diretta. Gli islandesi così hanno salvato il loro Paese dalla crisi economica.
Inizia nel 2001 quando il governo islandese inizia a privatizzare il settore bancario. Nel 2003 le tre banche principali iniziano a far lievitare i debiti contratti con altri paesi: nel 2007 questi debiti arrivano al 900% del PIL islandese. A questo punto il governo decide di rivolgersi al Fondo monetario internazionale che approva un prestito. I soldi iniziano ad arrivare, specie da Inghilterra e Olanda, ma, ad un certo punto, questi investitori stranieri reclamano la restituzione del debito islandese. Il governo non ha le risorse così il Paese finisce in bancarotta. Il governo fa quello che tutti i governi fanno in casi simili: propone le tipiche Misure di austerità ed i Tagli alla Spesa. La situazione diventa drammatica, la disoccupazione passa dall'1% al 9% e molti islandesi iniziano ad emigrare. Gennaio 2009: per trovare i soldi necessari, il governo studia un prelievo straordinario: ogni cittadino islandese avrebbe dovuto pagare 100 euro al mese per 15 anni, a un tasso di interesse del 5,5% annuo. Il tutto per pagare danni creati da altri. È a quel punto che la rabbia popolare esplode.
A guidare la rivolta sono un cantante ed una donna lesbica. I cittadini islandesi scendono in piazza, non per un giorno solo: per 14 settimane. Cingono d'assedio il Parlamento, chiedendo le dimissioni del governo, incapace di gestire la crisi, e di sbattere la porta in faccia agli organismi internazionali svincolandosi dalla BCE (che ricordiamo è un associazione di grosse banche PRIVATE).
Mentre, a Washington, l'America saluta l'entrata in carica del suo primo presidente di colore, gli islandesi sono in piazza, si scontrano anche con la polizia, il premier annuncia le dimissioni. Ma la gente non se ne va, non ancora. Chiede elezioni immediate e l'1 febbraio l'Islanda ha una nuova premier. Ma a un cambio di regime non corrisponde necessariamente ad un miglioramento della situazione economica generale, infatti il nuovo esecutivo vuole confermare il risanamento del debito con Olanda e Gran Bretagna. I combattivi islandesi nel 2010 chiedono un referendum sulla volontà di pagare o meno il debito pubblico. La pressione sull'Islanda è alle stelle: Olanda e Inghilterra minacciano di isolarla se sceglierà di non ripagare i debiti. "Ci dissero che se non avessimo accettato le condizioni della comunità internazionale saremmo diventati la Cuba del Nord", ricorda Grimsson. “Ma se le avessimo accettate saremmo diventati la Haiti del Nord". Al referendum il 93% dei votanti decide di rischiare di diventare la Cuba del Nord, schiacciante vittoria dei “No”. Gli islandesi non hanno alcuna intenzione di accollarsi un debito enorme generato da una politica finanziaria disastrosa condotta da chi detiene il potere finanziario del Paese. Da questo momento in poi l'esecutivo, adotterà misure draconiane, ma non verso i cittadini, quanto piuttosto verso coloro che sono stati ritenuti colpevoli della crisi. Si decide di mettere sotto inchiesta i banchieri e i top manager responsabili della crisi finanziaria. Le tre più importanti banche del Paese vennero nazionalizzate. Portati a giudizio ex-membri dell’esecutivo e banchieri (per quelli in fuga emessi mandati di cattura internazionali). Il Fondo Monetario congela immediatamente gli aiuti, “abbandona” il Paese, ponendo fine agli aiuti condizionati. Può essere l'inizio della rinascita. l'Islanda non accetta le ricette Proposte Dalle istituzioni Internazionali e rifiuta gli assunti liberisti.
Da qui la scelta della democrazia diretta e di una nuova costituzione che recepisca delle leggi in grado di tutelare in futuro da nuove catastrofi speculative. A novembre 2011 – viene eletta un’assemblea costituente, requisiti necessari per essere votati ed eletti sono solo tre: la maggiore età, il sostegno e le firme di trenta cittadini e la mancanza di affiliazione partitica. Inoltre si invita ogni cittadino a contribuire alla stesura della nuova Costituzione islandese – progetto chiamato Magna Carta - attraverso i social network Facebook e Twitter, mentre su un canale Youtube creato ad hoc è possibile seguire i lavori dell’assemblea. In attesa degli esiti del referendum e poi della ratifica parlamentare, la bozza della Costituzione è già in rete. Si sta sviluppando anche l’Icelandic Modern Media Initiative, una interessante iniziativa che dovrebbe servire a creare una rete di sicurezza, anche legale, perché il giornalismo d’inchiesta non debba scontrarsi e soccombere all’ingerenza dei poteri forti della politica e della finanza internazionali.
Il caso della rivoluzione islandese porta con sé delle lezioni importanti: la coraggiosa scommessa di andare controcorrente e di non adottare scelte imposte dall’esterno.
La grande stampa internazionale non ha dedicato alcuno spazio alla vicenda, è più fruttuoso per le banche (che detenendo il potere monetario, detengono anche il controllo dei politici e delle informazioni) presentare come unica soluzione a condizioni economiche e sociali disastrose (da loro stesse create tramite l'emissione selvaggi di moneta debito e la conseguente inflazione), l'ulteriore sacrificio della popolazione, come una vera e propria spremitura che gonfi ancor più le proprie tasche, è la lotta armata, per scongiurare il pericolo che un manipolo di cittadini consapevoli decidano di esercitare, finalmente, i propri diritti: sovranità popolare e sovranità monetaria.
fonte: Valeria Blandizzi
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